di Enrico Cantino
Succede a molti personaggi dei cartoni animati giapponesi: qualcosa li costringe a mettersi in gioco. Devono cercare una persona (magari se stessi), o procurarsi un oggetto (magico, naturalmente). Non importa quali saranno gli ostacoli, né il prezzo da pagare. Sono disposti a tutto, pur di raggiungere il loro scopo. Perfino a sacrificare la propria vita. Il fallimento è ammesso. L’importante è che abbiano dato il massimo.
La ricerca comporta l’idea del viaggio. Le cose e le persone non si trovano, se si sta fermi. Viaggiare e incontrare gente. In ogni episodio, un nuovo posto. E un nuovo personaggio, che racconta la propria storia al protagonista. Poi toglie il disturbo. In via provvisoria o definitiva. Discreta oppure cruenta. Ogni incontro reca con sé una sfida. Che permette di conoscere se stessi. Di crescere. Come quando si legge un libro: ci si confronta con l’altro da sé, con una visione del mondo diversa dalla propria.
Tre pellegrini. Il primo è Lulù, una ragazzina vestita come una caramella gigante. Con i capelli che ricordano molto da vicino i merletti della nonna, e rimangono sempre uguali, nonostante pioggia e vento. E l’assenza di un parrucchiere. Lulù, Canto di poesia e vento che scappa via, è una Prescelta. Una majokko (=maghetta). L’accompagnano un cane e un gatto parlanti. La sua missione è ritrovare il leggendario fiore dai sette colori. Durante il viaggio, può contare su una spilla fatata. Le basta orientarla verso un qualsiasi fiore per trasformarsi in ciò che vuole: pilota, judoka, hostess… Fino alla sorpresa finale. Il magico fiore se ne stava bello tranquillo nel giardino di casa sua. Quasi a voler suggerire che, come suggerisce anche Manzoni, molte volte non serve cercare lontano.
Il secondo è Sanshiro. Nel corso di un duello, un misterioso “uomo con un occhio solo” uccide il padre, rinomato maestro di Judo. Lui vuole (comprensibilmente) vendetta. Salta in sella alla sua moto per trovare e uccidere l’assassino. Anche lui ha due compagni di viaggio. Un orfanello e un buffo bassotto che indossa un berretto da ragazzino. Il nostro judoka incontra una ragazza in tutte le città che visita. Una gli muore addirittura fra le braccia. Ognuna di loro si trova nei guai. L’incontro diventa anche scontro. Prima di ogni combattimento, assistiamo alla rituale vestizione del protagonista: non scende mai in campo senza indossare l’immancabile kimono rosso, che sembra renderlo invincibile, come se possedesse chissà quali magici poteri. Sarà perché lo ha confezionato la defunta madre… Qui la ricerca ha un esito diverso da quello che potremmo aspettarci. Sanshiro non trova l’uomo con un occhio solo. Però continua a cercarlo con uno spirito nuovo: non intende più ucciderlo, ma misurarsi con lui in un duello leale.
Il terzo pellegrino è Masai, un ragazzino bruttarello, rimasto orfano di fresco. Alcuni uomini meccanici – esseri umani che rinunciano al loro corpo per prendersene uno, appunto, meccanico – uccidono sua madre. Anche lui vuole vendicarsi. Decide quindi di raggiungere il pianeta Andromeda, dove potrà procurarsi un corpo meccanico. Per arrivare a destinazione, però, bisogna imbarcarsi sul Galaxy Express, i cui biglietti sono carissimi e difficilissimi da ottenere. Gliene regala uno la misteriosa Maisha, una donna bionda, pallida e longilinea, che veste come una comparsa del Dottor Zivago e manovra una frusta con grande destrezza. I due si mettono in viaggio. Sono molti i pianeti toccati dal treno. E su ognuno di essi, Masai incontra uomini e donne dal passato tragico. Oltretutto c’è la fregatura. Maisha non è un essere umano, ma il clone della regina di Andromeda. Ha il compito di adescare dei ragazzini destinati a diventare parte integrante del pianeta stesso per garantirne la sopravvivenza. Però si pente e aiuta Masai a fuggire, riportandolo sulla Terra. E lui capisce che un guscio meccanico non gli serve a nulla.
Lulù l’angelo tra i fiori, Judo Boy e Galaxy Express 999. Tre storie diverse ma con il medesimo significato, sintetizzato dalla parole di Dave Lowry, autore del libro Lo spirito delle arti marziali: «lo scopo ultimo della Via [del Guerriero] è il “processo”. Significa fare una cosa non per il suo risultato, bensì impegnarsi perché compiere questo atto ci libera dalle costrizioni del nostro io limitato: il narcisismo, l’egocentrismo, la preoccupazione indotti dai timori, dai problemi e dai dubbi che rendono più misera la nostra vita quotidiana. La Via ci attira nel luogo in cui domina il nostro io potenziale: l’autorealizzazione, l’autocoltivazione e l’autoperfezione.»
La Via, insomma, è lì. C’è solo da percorrerla.
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