di Enrico Cantino
Le storie non si scrivono da sole: l’ispirazione bisogna pur prenderla da qualche parte. I giapponesi pescano qua e là, alla ricerca di ciò che ritengono più utile o interessante. Poi lo rielaborano in una sintesi del tutto personale. La fonte più saccheggiata è chiaramente la tradizione orientale. Nelle trame di molte serie sono disseminati elementi estratti da miti e leggende. A volte le tracce sono impercettibili: si limitano ad allusioni che non sempre un pubblico occidentale può cogliere. In altri casi, la componente leggendaria diventa parte integrante della vicenda.
Il Taoismo ha fornito materiale per almeno tre anime (Dragonball, The Monkey, Starzinger), ispirati alla figura di Son Gokuh, l’irriverente e invincibile scimmiotto di pietra. Anche lo Shintoismo, religione autoctona del Giappone, ha fatto la sua parte, distribuendo a piene mani riferimenti e simbologie. Senza contare l’apporto del Buddhismo, la cui influenza è stata però più sottile e omogenea.
Innumerevoli i riferimenti ai racconti popolari nipponici. C’è Momotarō, il bambino nato da una pesca, che con l’aiuto di tre animali – un cane, una scimmia e un fagiano – parte da casa per conquistare Onigashima, l’isola degli oni, gli orchi giapponesi. La maghetta Gigì, protagonista della serie Il magico mondo di Gigi, ne è la versione al femminile (il suo vero nome è proprio Princess Minky Momo). Gli orribili oni, invece, creature derivanti dall’anima di un defunto, li ritroviamo soprattutto in due anime. Il primo è Getta Robot G: sono i formidabili avversari della nuova versione di Getta Robot. Il secondo è Lamù la ragazza dello spazio: la bella aliena appartiene infatti a una razza di oni extraterrestri. Un altro bambino, il fortissimo Kintaro, armato di ascia e accompagnato da un orso, compare come comprimario occasionale di Lamù. La quale ha fra le sue antagoniste Kurama, la donna-corvo accompagnata dai tengu, esseri metà uomo e metà corvo (animale caro alla Dea del Sole Amaterasu, star del panteon shintoista). Il primato in fatto di comparsate spetta forse alla nostalgica Principessa delle nevi, che compare addirittura in un episodio di Jeeg Robot d’acciaio: i nemici del robottone la costringono a combattere contro di lui sotto forma di mostro.
L’immaginario nipponico prevede molte altre creature bizzarre e mostruose. Ci sono demoni, divinità, spiriti dispettosi, draghi, monaci e fantasmi. Non mancano gli animali-simbolo: la volpe (responsabile, fra l’altro, della tragica morte di Anthony, primo fidanzatino di Candy Candy), il corvo, il tasso (ingannatore e subdolo: uno dei protagonisti – in negativo – della serie Don Chuck Castoro). Tutte perfettamente integrate nella quotidianità. In molte serie, la componente fantastica non stride con la realtà, ma ne è addirittura un importante elemento costitutivo.
ll teatro è un’altra cisterna tematica da cui i giapponesi attingono con una certa frequenza. A cominciare dal Teatro Nô. Di origine religiosa, è fondato sulla figura shintoista di Amaterasu, la già citata Dea del Sole. Insiste su un concetto del Buddhismo Zen, molto caro ai samurai giapponesi: l’impermanenza della vita umana. Nelle sue opere troviamo temi come il dolore della madre per la morte del figlio e la fanciulla alla ricerca del padre. Le rappresentazioni sono costruite per lo più attorno a due personaggi: uno spirito prigioniero e un sacerdote errante.
Un sostanzioso contributo viene anche dal teatro popolare Kabuki – termine composto dalle parole ka («canto»), bu («danza») e ki («teatro, tecnica e recitazione») – nato tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600. Lo scopo era ricreare sul palcoscenico la magia di un fatto storico, mitologico o romantico, attraverso una recitazione enfatizzata fino all’estremo e un linguaggio tendenzialmente aulico e retorico. Il repertorio prevedeva drammi storici (jidaimono), sociali (sewajidai) e di vendetta (katakiuchimono), senza contare quelli riguardanti gli intrighi di alcune dimore principesche (oiêmono). Mentre i soggetti sembrano fatti apposta per essere travasati negli anime: gli amori impossibili (con annesso doppio suicidio degli amanti) o quanto meno sfortunati; la vendetta nei confronti dell’oppressore da parte di chi ha subito un torto; magnanimo rispetto per chi è stato sconfitto (o, viceversa, l’accanimento nel farlo a pezzi); il coraggio in battaglia; l’incapacità di riscattarsi dopo una batosta; l’equivoco; il “riconoscimento finale” di persone credute scomparse o, peggio ancora, morte; fantasmi e spettri; il nobile sacrificio di chi offre la propria vita per salvare e proteggere gli indifesi.
Per creare prodotti che potessero interessare al mercato televisivo occidentale, i giapponesi sono andati a frugare nella tradizione del “romanzo di formazione” ottocentesco. Da qui sono stati presi i materiali per le serie ambientate in Europa e America, siano esse ricavate da opere letterarie, oppure inventate di sana piana.
Il tipico romanzo popolare dell’Ottocento racconta le altalenanti traversie patite da ragazzini e ragazzine abbandonati e privi di mezzi, costretti ad affrontare una micidiale serie di alti e bassi. Le infinite umiliazioni non cambiano in alcun modo la loro moralità. Oltretutto fortificano e temprano il carattere. Alla fine, la fortuna arride al piccolo eroe o alla piccola eroina, che non si monta per nulla la testa. Si ricorda degli amici e dei cari che gli sono stati vicini sostenendolo nei momenti critici. Soprattutto, pur avendone la possibilità, non si vendica mai delle angherie che il cattivo della situazione gli ha sadicamente inflitto. La sola cosa che gli interessa davvero è liberarsi da una situazione poco piacevole.
Sembra che ai giapponesi piaccia parecchio il vittimismo presente in questo tipo di letteratura, soprattutto se coinvolge figure femminili particolarmente tormentate. Per averne conferma, sarebbe sufficiente dare un’occhiata ad anime come Charlotte, Candy Candy, Lady Georgie, e altre ancora. Gli autori simpatizzano in maniera spudorata per gli “sfigati”, quelli, cioè, cui piove addosso ogni tipo di sciagura. Diseredati, perdenti (almeno in apparenza) e afflitti fanno cassetta, soprattutto se sfidano l’impossibile pur di concretizzare il loro sogno.
La trasposizione in cartone animato dei romanzi ottocenteschi prevede due opzioni: il sostanziale rispetto della vicenda (succede per Heidi e Remì, anche se nel primo caso la storia viene semplificata) o una libera interpretazione della stessa (come nelle due versioni di Pinocchio). Quello che, comunque, viene mantenuto inalterato, è il tono drammatico, lacrimevole e straziante dell’originale. Tanto per non sbagliare.
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