di Enrico Cantino
Non so se esista in Giappone qualcosa di simile ai Promessi Sposi. Però la religione, negli anime, c’è. Ed è talmente compenetrata nella realtà quotidiana che diventa molto difficile distinguerla a occhio nudo. Passa quasi inosservata. Almeno per noi occidentali. È una presenza discreta, ma imprescindibile: i momenti più importanti della vita di un giapponese – nascita, passaggio alla maggiore età, matrimonio, morte – sono scanditi e guidati da riti e liturgie. Perfino la cerimonia del tè e l’arte di disporre i fiori contengono in sé qualcosa di solenne. Non c’è distinzione netta fra quello che è sacro e quello che è profano: il divino è presente ovunque.
In Giappone si sono fatte sentire diverse fedi: le più importanti sono Shintoismo e Buddhismo, che secondo Marcello Ghilardi, autore di Cuore e acciaio, sono «le due che forse appartengono maggiormente allo spirito giapponese e che informano di sé le storie narrate negli anime». La prima è originaria del luogo, mentre la seconda proviene “da fuori”. Da essa è stato estratto e assorbito ciò che si è giudicato più congeniale alla forma mentis nipponica. A dire il vero, i giapponesi non hanno mai elaborato dottrine. Il loro senso religioso non contempla l’esclusività del culto. Nella stessa persona convivono modi differenti di esprimere la propria fede: può essere al tempo stesso shintoista e buddhista. La compresenza e l’interazione fra diverse religioni è un dato di fatto e si esprime, ad esempio, nella consuetudine di celebrare matrimoni secondo i dettami dello Shintoismo, e i funerali secondo quelli del Buddhismo.
Partiamo dal primo. Parlare dello Shintoismo non è semplice, visto che perfino i giapponesi, per loro stessa ammissione, hanno le idee confuse in merito. Secondo Will Ferguson, autore del saggio Autostop con Buddha, «è qualcosa che riguarda l’essere giapponese. Shintoista non si diventa. Si nasce. Semplicemente, si è shintoisti nello stesso modo in cui si è – o non si è – giapponesi […] sradicato dal suolo giapponese, lo Shintoismo appassisce e muore».
Proviamo allora a descriverlo in negativo, stabilendo che cosa non è e cosa non fa. Non è una dottrina nel senso tradizionale del termine. Intanto, non ha un fondatore – come sono Buddha, Gesù e Maometto – non possiede dogmi e non ha prodotto sacre scritture, anche se esistono testi antichi (ad esempio, il Kojiki) che forniscono preziose informazioni sui principi storici e spirituali che lo ispirano. Non s’impedisce al credente l’adesione ad altre fedi (è possibile essere contemporaneamente anche buddhista e cristiano). Non si prevede un giorno fisso per la celebrazione della liturgia (domenica per i cristiani, sabato per gli ebrei e venerdì per gli islamici), bensì innumerevoli feste legate alle stagioni. Gli edifici del culto – santuari immersi nella natura – non sono concepiti come strumenti per propagandare la fede. Svolgono la funzione di dimora divina: ospitano, infatti, uno o più shintai, gli oggetti sacri che racchiudono l’anima del kami. Infine, non si insegna a temere l’inferno e a desiderare il paradiso.
Tiziano Terzani, nel libro In Asia, lo definisce «antichissima concezione sciamanica che si manifesta nel ritenere gli oggetti e la natura animati da “spiriti-dei” (i kami)». La parola Shintō – introdotta a partire dal secolo XIII per distinguere lo Shintoismo dalle religioni “esterne” – significa, in effetti, «Via (tō) delle Divinità (shin)». Queste divinità (o deità) sono chiamate kami. La vera difficoltà sta nel comprenderne in cosa consistano. La parola non aiuta, perché i suoi significati sono innumerevoli, e la sua etimologia incertissima. Le ipotesi in merito sono diverse. C’è una teoria secondo cui deriva dall’unione di ka, «fuoco», e mi, «acqua», le due forze primordiali responsabili della creazione dell’arcipelago giapponese. Secondo altri, invece, ka significa «superiorità» e mi «corpo», con tutto quel che ne consegue. Altri ancora ne individuano l’origine sarebbe nel termine kamui della lingua ainu (oltre a significare «divinità», è anche il nome del protagonista di un anime sui ninja).
A fare un minimo di chiarezza prova Paolo Puddinu: «È […] kami tutto ciò che “sta sopra”, che in un modo o nell’altro sta in una parte più alta. […] Il nucleo concettuale del termine indica […] tutto ciò che è straordinario, eccezionale, meraviglioso, non comune, sia che ci si riferisca al regno della natura sia che si pensi al mondo degli animali o degli uomini».
Può sembrare una semplificazione, ma qualunque cosa può essere un kami: oggetti, fenomeni naturali, piante, animali, fiumi, montagne, sentimenti… perfino esseri umani. Si tratta di persone che in vita hanno compiuti atti eroici o si sono distinti per virtù e talento, dimostrandosi eccezionali al punto di guadagnarsi, dopo la morte, la qualifica di kami di grado superiore. Siamo tutti potenziali divinità, perché in ogni essere viene riconosciuto uno spirito (tama) che agisce indipendentemente dal corpo.
Gli uomini vivono in comunione con i kami, che operano in perfetta armonia fra loro. Apprezzano e favoriscono la concordia e la cooperazione tra gli esseri umani. Non c’è posto per l’egoismo, né per la contrapposizione tra esseri celesti e terreni. Lo Shintoismo è ottimista: il mondo è sostanzialmente buono, e anche l’uomo lo è, perché figlio delle divinità, che lo amano e proteggono. Se tutto è buono, non esiste il peccato originale. Per cui il giapponese non si angoscia al pensiero di ciò che lo aspetta dopo la morte, anche perché considera il processo vita-morte come il naturale e inevitabile susseguirsi d’un ciclo. Il male, cioè tutto quello che impedisce la felicità, viene introdotto dall’esterno, e deve quindi essere eliminato.
A questo punto, entra in gioco il concetto fondamentale della morale Shintō: l’idea della purezza materiale. Secondo i giapponesi, ossessionati dall’impurità, l’unica colpa grave è la contaminazione fisica. Per evitarla, hanno elaborato un complesso di norme comportamentali che impedisce il contatto con tutto quello che può contaminarli. Chi è impuro viene chiamato tsumi e non può vivere in comunione con i kami. La sua impurità può essere contratta di proposito o involontariamente e coinvolge tutto il gruppo di appartenenza, qualunque esso sia. Oltretutto, è molto contagiosa: si trasmette con estrema facilità. Ne consegue che lo tsumi deve isolarsi, stando ben lontano dai luoghi di culto, dalla famiglia e dalla società, almeno fino a quando non si sarà decontaminato (vedi il film d’animazione Princess Mononoke, di Hayao Miyazaki).
Sono tre le cause che provocano l’allontanamento dalla comunità: le cattive azioni, le calamità e le contaminazioni. Chi ha momentaneamente abbandonato il retto cammino – conservando, però, il diritto di rientrarvi – non può essere definito «peccatore». Il peccato inteso come violazione di un precetto divino non esiste: le infrazioni alle leggi e alla morale sono causate da spiriti maligni fuggiti dallo Yomi, il regno delle tenebre, quindi non dipendono dall’uomo. Il quale, grazie alla comunione con la natura, possiede dei principi innati che guidano le sue azioni. Le regole, insomma, non sono frutto di rivelazione divina: non provengono, cioè, “dall’esterno”.
Le “infrazioni” sono di due tipi. Quelle celesti, commesse contro la cultura del riso, che nel Giappone medioevale costituiva la vera ricchezza e il vero potere. E quelle terrene: tagliare la pelle viva (il sangue è impuro e contamina chi ferisce e chi viene ferito), tagliare la pelle morta (il cadavere è apportatore di impurità), albinismo, incesti, accoppiamenti con animali, ecc. Adulterio, furto e falsa testimonianza non rientrano invece nella categoria delle cose da non fare.
Una volta commessa l’infrazione, devi riscattarti. Le modalità a tua disposizione sono tre: la prevenzione (che consiste nell’evitare come la peste tutto quello che può renderti impuro: ci sono perfino delle parole tabù…), l’esorcismo (celebrato da un sacerdote shintoista) e il lavaggio del corpo (che non richiede la presenza di sacerdoti).
La necessità di tornare puri ha finito per attribuire una grande importanza al bagno. Chi è pratico di un anime sa che le scene ambientate nei bagni pubblici e privati con abbondanza di acqua calda, sono piuttosto frequenti. L’acqua favorisce la socializzazione, i rapporti personali. E porta con sé l’idea dell’uguaglianza. Perché in bagno siamo tutti uguali.
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