La religione negli anime: il Buddhismo parte I

 

di Enrico Cantino

 

L’altro credo presente negli anime è il Buddhismo (parola che deriva da Budh, «sapere», «risvegliarsi»). È una dottrina talmente complessa e con tali e tante ramificazioni, che volerne parlare diffusamente sarebbe un tentato suicidio. Non basterebbe un libro. L’unica cosa sensata da fare è riassumerne le linee generali, così da poterne rilevare le tracce all’interno delle serie animate giapponesi.

Monaci buddhisti
Monaci buddhisti

Cominciamo con qualche informazione “anagrafica”. È più tardo, rispetto allo Shintoismo. Nasce in India e viene introdotto in Giappone nel 552 d.C., quando il re coreano di Cudara invia all’Imperatore del Giappone una statua di Buddha (parola che significa «l’Illuminato»), insieme a libri e oggetti sacri. Vent’anni dopo, viene proclamato religione di stato, e si affianca allo Shintoismo, raggiungendo il massimo splendore nel secolo VIII. In un primo tempo, le due religioni sono complementari: interagiscono secondo una politica di scambio continuo. Fino al momento in cui vengono separate. Lo Shintō cade in disgrazia: i kami vengono considerati manifestazioni temporanee di Buddha e dei Bodhisattva, figure più o meno equiparabili, come vedremo, agli angeli occidentali.

 

Con l’Era Tokugawa (1603-1868), la situazione si ribalta: il Buddhismo viene accusato di essere responsabile della decadenza morale e civile del paese, e il credo autoctono rialza la testa. Non solo: nell’Era Meiji (1868-1911), i due culti vengono separati del tutto. Lo Shintoismo assurge al rango di religione di stato: il suo compito è difendere il paese dall’ingerenza dei popoli stranieri. Diventa il fondamento politico-istituzionale sul quale costruire il Giappone moderno. Per cadere nuovamente in disgrazia nel 1945, anno in cui perde lo status di religione nazionale. Le forze di occupazione militare americane lo dichiarano “fuorilegge”, perché lo ritengono la causa principale del conflitto. Religione e Stato si separano.

 

Nemmeno il Buddhismo è un credo tradizionale. Non affronta alcune delle questioni ritenute fondamentali dall’uomo occidentale. Non costruisce un sistema religioso: rifiuta anzi con fermezza dogmi e dati rivelati. Le speculazioni metafisiche sono bandite: il buddhista è un pragmatico, e gli interessano soltanto le conoscenze capaci di favorire la crescita spirituale dell’uomo. Ecco perché neppure qui ci sono sacre scritture. Esistono dei testi, ma sono stati redatti più di duecento anni dopo la morte di Buddha, al quale ogni autore ha attribuito idee che, pur non essendo state formulate direttamente, sono in tutto e per tutto conformi ai suoi principi.

 

Se lo Shintoismo è politeista, il Buddhismo è ateo. La divinità genera dipendenza. Sottomettersi a un’entità soprannaturale impedisce il libero sviluppo della propria spiritualità, per la cui realizzazione non serve alcun dio. I giapponesi rifiutano l’esclusivismo che caratterizza le altre religioni, sintetizzato nella formula Non avrai altra fede e altro Dio all’infuori di questi. Al contrario: l’adepto è liberissimo, se vuole, di credere in un dio. Non gli viene richiesta fedeltà incondizionata, né deve rinnegare l’eventuale credo di appartenenza. E se qualcuno scredita le sue convinzioni, non batte ciglio. Forse è per questa sua tolleranza che il Buddhismo non ha mai scatenato conflitti di tipo religioso.

Fondare un credo sull’assenza di una divinità in un periodo nel quale negare l’esistenza di un Principio Superiore era tutt’altro che igienico, non è una robetta da niente. Al posto di un dio – inteso come entità distante e diversa dall’essere umano, povero peccatore atterrito – troviamo un uomo. Se non ci sono paura e soggezione, non può esserci neanche la distanza. Viene meno pure il principio autoritario e dogmatico dell’ipse dixit. Buddha stesso lo sostiene: non dovete credere a una cosa solo perché l’ho detta io. In altre parole, mai fidarsi di quanto viene avvalorato da tradizioni millenarie o da qualsiasi tipo di autorità. Se anche venisse dimostrato che questa figura non è mai esistita dal punto di vista storico, il Buddhismo non ne sarebbe danneggiato in alcun modo. La verità, infatti, esiste a priori: lui non ha fatto altro che rivelarla. Un po’ come per la legge di gravità: esisteva già. Il merito di Newton è stato esclusivamente quello di enunciarla.

 

A questo punto, l’unico criterio che permette di stabilire l’autenticità di un’affermazione o di un’idea, è l’esperienza. Per il buddhista la religione è legata al sapere, non alla fede. Però la verità è infinita. Impossibile coglierla nella sua interezza. Gli esseri umani si avvicinano a essa, senza mai raggiungerla. È permesso coglierne soltanto un aspetto, che del resto non esclude tutti gli altri. L’importante è sapere che non si conquista attraverso il semplice accumulo di nozioni. La conoscenza non deve essere intesa come un cumulo di pregiudizi e di concetti che ci tengono ancorati alla realtà. Il Buddhismo parte da una constatazione pessimistica: l’esistenza dell’uomo non è immersa nella natura, bensì nella sofferenza (dhukka) e nel dolore, causati da un eccessivo attaccamento alle cose di questo mondo (idee, credenze, parole, persone e oggetti), tutte transitorie e quindi destinate a morire. Il piacere è fonte di dolore, perché genera attaccamento. Che, a sua volta, viene provocato dal desiderio, la cui mancata soddisfazione produce frustrazione e infelicità. Un serpente che sgranocchia la propria coda, in pratica.

 

Si può cercare di pezzarla evitando di legarsi a qualunque cosa, perfino alla dottrina del Buddha. Lo scopo ultimo è liberare l’uomo dalla sofferenza attraverso una serie di suggerimenti pratici – lo abbiamo detto sopra che il buddhista è un pragmatico – contenuti nel cosiddetto ottuplice sentiero verso la retta via. Il quale stabilisce che il comportamento umano deve essere improntato alla rettitudine. Ciò implica una visione delle cose la più obiettiva possibile. Ogni parola deve essere onesta, serena e tranquilla: non deve, cioè, suscitare odio o zizzania. Ogni azione deve essere intrapresa secondo motivazioni ben chiare. E qui le cose cominciano a complicarsi. La condotta di ognuno di noi, infatti, non può prescindere dal karma. Per capire di cosa si tratta, bisogna introdurre il concetto di reincarnazione. L’uomo, in realtà, non muore. Rinasce più volte, sotto forme diverse, perché l’energia ricerca sempre un nuovo corpo. Il karma non è altro che la somma delle azioni compiute nelle esistenze precedenti.

 

Il Buddhismo – come lo Shintō – non concepisce la colpa. Ma nemmeno l’innocenza: un bambino non può essere puro, a causa delle vite vissute in precedenza. La punizione per le nostre mancanze non viene da Dio: siamo noi stessi a castigarci. Ogni azione, parola o pensiero ci torna indietro. E si ripercuote sulle nostre vite successive. Gli uomini sono parte integrante del cosmo: formano un tutt’uno con ciò che esiste. In virtù di questa simbiosi, se facciamo del bene agli altri, ne facciamo anche a noi. Viceversa, se danneggiamo gli altri, finiamo per danneggiare anche noi stessi. Un bel boomerang.

 

 

Gli errori commessi hanno però una loro utilità: i danni che ne derivano sono fonte d’insegnamento e ci permettono d’imparare. Favoriscono, cioè, la conoscenza. Per questo la psicoterapeuta americana Robin Norwood, nel suo libro Guarire con i perché sceglie di andare controcorrente: «La parola karma indica un destino che ha la funzione di equilibrare le conseguenze delle azioni passate, comprese quelle compiute in altre vite». In pratica, invita a considerare l’aspetto positivo insito in questo concetto: «Spesso si tende a sottolineare soprattutto l’aspetto temibile del karma, quello di punizione: per molti questa è l’unica accezione della parola. Ma non è certo quella essenziale: il karma, infatti, lungi dall’essere un principio punitivo o di vendetta, è anzi un principio equilibratore».

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