La religione negli anime: il Buddhismo parte II

Giardino Zen
Giardino Zen

di Enrico Cantino 

 

Secondo il Buddhismo, dunque, la responsabilità di quel che facciamo è solo nostra. Il karma è inesorabile. Non si scappa. Voglio il bene? Produrrò karma positivo. Voglio il male? Produrrò karma negativo. I desideri innescano la volontà, che dirige le azioni della persona e produce il karma. Ecco perché i protagonisti degli anime si dannano l’anima al fine di realizzare i propri sogni. Lo conferma il romanzo Principe Genji (Genji Monogatari), scritto dalla dama di corte Shikibu Murasaki: «Poiché coloro che muoiono lasciando desideri irrealizzati, portano il peso di un karma funesto nelle loro vite future».

 

Per svincolarsi da questo circolo vizioso, bisogna liberarsi della volontà personale, distaccarsi dal proprio Io. Se tolgo di mezzo il karma, mi sbarazzo della sofferenza. E posso raggiungere il nirvana, condizione perfetta che consiste nell’annullamento di ciò che lega la mia esistenza alle cose materiali di questo mondo. Niente più desideri. Niente più attaccamento. Niente più infelicità. Entra in gioco il bodhisattva, una creatura umana (uomo o donna, non importa) che ha raggiunto il nirvana, ma vi rinuncia a favore degli altri. Prima di entrarci, vuole fare in modo che tutti gli esseri del mondo possano arrivarci insieme a lui. Sceglie, insomma, di aiutare chiunque a uscire dal ciclo vita/morte del karma. Perché vede l’umanità come un insieme di altri se stesso.

 

Per il buddhista l’individualismo occidentale è sinonimo di egoismo. L’individuo non è un’unità a sé stante: fa parte del tutto, e in quanto tale può percepire gli altri nella loro interezza. L’esistenza del cosmo e delle sue creature è regolata da una legge chiamata dhamma, grazie alla quale le cose sono come sono. Vivere in base a essa equivale a desiderare di conoscersi più a fondo, per evolvere e abbandonare l’egoista che è in noi. L’iniziativa spetta al singolo, perché il cambiamento deve anzitutto partire da lui, non dagli altri.

 

Il problema, come sostiene il grande Maestro Zen Taïsen Deshimaru è l’io: «Si è troppo attaccati al proprio io, per questo si ha paura. Abbandonate il vostro io e non avrete più paura». Non è facile, ma un modo esiste: «Superare l’io è molto arduo; non ho mai detto che può essere totalmente annullato. Lo si può credere nella propria coscienza o nel proprio spirito, ma il corpo non segue. Lo Zen, attraverso la pratica della meditazione, ci porta all’abbandono incosciente, involontario, dell’io».

 

Scopo dello Zen è raggiungere l’Illuminazione, vale a dire il risveglio (satori), che porta alla saggezza liberando l’uomo da illusioni e passioni ingannevoli. Solo così può percepire in maniera obbiettiva la realtà. Per accrescere la propria spiritualità deve lavorare su se stesso. La verità non deriva da dogmi o dati rivelati: va verificata di persona. Non c’è nessuna forza o entità esterna che ce la viene a porgere su un piatto d’argento. La parola d’ordine è concretezza. Questo ci porta a superare i ristretti limiti dell’ego, e comprendere gli altri. È una specie di mutuo soccorso: la consapevolezza altrui dipende dalla mia, perché tutto è collegato.

Lo Zen è la celebrazione dell’azione istintiva. Come dice il grande Maestro Taïsen Deshimaru, «tutte le tecniche, tutte le scienze poste sotto il dominio della ragione, non hanno alcun valore dinanzi alla giusta intuizione». È una disciplina che insegna ad agire senza riflettere, senza, cioè, lasciarsi condizionare dalle eventuali conseguenze di ciò che si sta per fare. Insiste molto sull’assenza di volontà. Gesti e parole devono essere spontanei e fuoriuscire da noi con la massima naturalezza. Nessun intervallo tra due movimenti, ma un flusso immediato. I ragionamenti sono inutili: vanno lasciati da parte perché ritardano l’azione, esponendoci al rischio di un probabile fallimento. Questo modo di pensare è piaciuto molto ai samurai: l’hanno trovato del tutto in sintonia con le loro esigenze, e l’hanno adottato. Lo vedevano come una sorta di training psichico in vista del combattimento. La meditazione Zen rappresentava per loro una fonte di energia mentale e di controllo interiore.

 

La più grande difficoltà dello Zen è il suo essere evidente. E questo, paradossalmente, rende difficile focalizzarlo. La sua essenza è sfuggente e non può essere espressa a parole. Non è una filosofia, e nemmeno una dottrina. È un modo di essere che trascende qualunque cosa. La ragione non serve. L’unico modo per comprenderlo è praticarlo e i suoi precetti insegnano a muoversi nella vita senza cercare di arrestarne il flusso. È un concetto preso in prestito dal Taoismo, secondo cui tutto cresce, tutto si muove in continuazione, come precisato da Richard E. Nisbett, «Il ritorno – il moto in una circolarità infinita – è il modello fondamentale del movimento del Tao», il cui fluire si riconosce nella scorrevolezza e nell’incessante mutamento delle cose. L’obiettivo è la sintonia con le forze della natura e le leggi cosmiche. A questo proposito, sempre Nisbett scrive: «Il Taoismo era fondato sul grande amore per la natura, la vita rurale e la semplicità: era la religione della meraviglia, della magia e dell’immaginazione, e considerava l’universo come il risultato dell’interazione tra la natura e gli esseri umani». Il che ci ricorda uno dei principi basilari dello Shintoismo, vale a dire la convinzione che l’esistenza dell’uomo sia in perfetta simbiosi con la natura.

 

L’idea che ha letteralmente conquistato i samurai è quello dell’impermanenza delle cose. Tutto è transitorio. Perfino l’uomo, perché composto di cinque aggregati, ognuno dei quali caduco: materia, sensazioni, percezioni, formazioni mentali (la mente viene considerata organo di senso), coscienza. La causa del dolore è il desiderio di cose destinate a non durare. In realtà non si può possedere nulla. Chi crede di poterlo fare, è vittima delle illusioni che si è costruito sulla vita. Per eliminarle, occorre praticare la meditazione. Essa sola conduce all’Illuminazione, che il maestro Deshimaru definisce in questo modo: «non è una condizione particolare dello spirito, né uno stato di coscienza trascendente: è un ridestarsi alla vita». Chi la raggiunge lo fa all'improvviso e senza rendersene conto. Il suo requisito principale è l’inconsapevolezza. Se ti rendi conto di essere illuminato, allora non lo sei. Non bisogna cercare di capire razionalmente. Una volta conseguito questo nuovo stato, l’Io si annulla ed entriamo in piena sintonia con l’universo: il nostro corpo e il cosmo formano una sola entità.

 

In sintesi, sono due le idee buddhiste che incontriamo con maggiore frequenza negli anime: la vita intesa come sofferenza (portata fino all’estremo nelle serie al femminile) e l’importanza dell’esperienza “sul campo”. I personaggi di questi cartoni animati soffrono pene inesprimibili, ma sono al tempo stesso gente pratica, abituata a contare unicamente sulle proprie forze. Sanno che la conoscenza non è qualcosa di astratto. Si basa sulla concretezza, sulla prassi. Se fai, conosci.

 

Generalmente, però, non è così facile stabilire con precisione quali elementi possano essere considerati shintoisti e quali buddhisti all’interno di queste serie. Il confine tra le due religioni è indistinto. Non si capisce mai bene cosa appartenga a chi. Le certezze sono poche. L’unica cosa da fare è accontentarsi. E godersi i cartoni animati.

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Commenti: 3
  • #1

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